Lo schermo sul fondo del palco restituisce l’immagine di una signora non più giovanissima, ma che dimostra molto meno dei suoi oltre ottant'anni, la sua voce registrata invece rimanda, di tanto in tanto, suoni che ci parlano di canzoni da avanspettacolo o ricordi frammentati, ma sulla scena ci sono loro, Nicola Russo e Sara Borsarelli, autori della drammaturgia, ma soprattutto eccellenti attori in quello che non esitiamo di definire uno dei più interessanti lavori teatrali presentati al Napoli Teatro Festival Italia di quest’anno, seppur inserito nella collaterale rassegna del Fringe, dal quale, ci auguriamo, possano assurgere ad una adeguata promozione.
Elettra, biografia di una persona comune studio #1 è, a dispetto del sottotitolo, non uno studio ma uno spettacolo vero, molto più completo di quanti più presuntuosamente vengono denominati tali, uno spettacolo che non necessita di strombazzare effetti speciali, location suggestive, progettazioni iperboliche, vistose elaborazioni, di cui il festival è intriso e che, molto spesso, non trovano rispondenza in adeguate realizzazioni, la piece di Russo e Borsarelli, di cui il primo firma anche la regia, nella sua totale semplicità, ha le caratteristiche fondamentali perché il teatro sia davvero degno di essere chiamato tale: ottima drammaturgia, regia elegante, precisa e non banale, interpretazioni eccellenti, il tutto amalgamato in un prodotto che incolla il pubblico alla sedia come difficilmente riescono a fare i presuntuosi intellettualismi di tanti giovani artisti sempre più ripiegati su se stessi.
La vera storia della soubrette Elettra Romani, su cui si snoda la drammaturgia, è tutt’altro che quella di una persona comune, e i due autori riescono a trarre dalle vicende drammatiche, degne di un romanzo d’appendice di Carolina Invernizio, che hanno caratterizzato il privato della donna, una leggerezza che riesce divertire ma anche a commuovere, senza cedere a nessun compiacimento. Alla base vi è un testo in cui, in forma di monologo, la donna parla della propria storia, che cammina di pari passo con la storia di un’Italia che vive gli smarrimenti e le drammatiche contraddizioni che l’hanno accompagnata dal ventennio fascista agli anni ’70, un monologo che, nella rappresentazione, si sdoppia, poiché i due attori lo interpretano a due voci, dando mobilità alla messinscena (grazie anche ad un più che appropriato uso del corpo), colore e comunicazione, quasi rappresentassero due diverse coscienze della donna.
Uno spettacolo, questo, che non esitiamo a definire come un piccolo gioiello che, per fortuna, tra sterili addii tridimensionali e delitti non abbastanza castigati, ci regala un barlume di speranza per un teatro ancora vivo.